A ruota libera (dal libro di A. Daprati - Tartufi, cani e tartufai)
... Il lettore, ormai, ha imparato a conoscermi e sa che, quando ne intravedo l'utilità, mi lascio andare ad alcune considerazioni come quelle che seguono, con l'unico obiettivo però di fornire chiarimenti sulle situazioni a corollario della ricerca o del mondo dei tartufi più in generale.
Qualche volta tra i tartufai nascono discussioni, anche accese, mediante le quali si cerca di far luce sul quesito di fondo della ricerca dei tartufi, ovvero quale cane sia il più adatto. Così, si scagliano opinioni ragionate contro convinzioni radicate, concetti contro pregiudizi, assiomi contro paradossi, e cosi via. In tali consessi (il più delle volte tenuti nei bar), ho avuto modo di rilevare che, tra le razze canine più gettonare, c'era il lagotto. In quelle occasioni, quando mi veniva richiesto un giudizio, per non accalorare oltre gli animi cercavo posizioni mediate, un colpo alla botte e uno al cerchio, per intenderci. Ma qui bisogna dirla tutta: il lagotto è un ottimo cane da tartufi, ma anche tanti altri!
Il lagotto è molto precoce nell'apprendimento (già a due mesi raspa sui tartufi), altri hanno bisogno di qualche riflessione in più. Il lagotto si mette "a disposizione" del padrone da subito riconoscendone il ruolo di dominanza, altri vanno convinti in modo un poco più deciso. Il lagotto è poco attratto dalla selvaggina, altri hanno bisogno di esserne un poco più dissuasi. Il lagotto nei primi due-tre anni d'insegnamento raggiunge un livello di preparazione e di attitudine che altri raggiungono in quattro anni pieni. Ecco, se dovessi consigliare un cane a un neofita, che poco sa di addestramento di cani e di ricerca dei tartufi, non avrei dubbi: il lagotto.
Però il tartufaio, quello esperto e tosto, che addestra da sé i suoi cani e lo fa da tanti anni, sa bene che per fare un cane da tartufi ci vogliono quattro anni. Sa che durante quei quattro anni il suo cane dovrà imparare perfettamente i posti, abbandonare completamente qualsiasi sollecitazione giunga da animali selvatici, obbedirgli ciecamente e dovrà aver imparato alla perfezione anche le fisime del suo padrone. Sa che dopo quei quattro fatidici anni, il cane migliorerà sempre più, di anno in anno, di tartufo in tartufo, fino a quando avrà raggiunto un livello tale che il tartufaio vorrebbe poterlo fermare per l'eternità (intorno agli otto, dieci anni se il cane è in salute). Lo sa perché l'ha visto già diverse volte addestrando i suoi cani. Lo sa perché tra i cani che ha avuto ce n'e stato uno che non dimenticherà mai più, nonostante l'abbia addestrato esattamente come ha fatto con tutti gli altri. E sa che quel cane non era un lagotto.
La morale della storiella è che dopo i primi quattro vengono tutti gli altri anni. Se il lagotto può fare la differenza con le altre razze nei primi quattro anni, tale differenza sarà appiattita e annullata negli anni che verranno. Dove non sarà più la razza o gli incroci di prima generazione o le selezioni avviate dagli allevatori a stabilire qual e il migliore, poiché tutti, se ben addestrati, saranno più o meno su uno stesso livello. Tutti tranne uno. Quello che ricorderemo sempre, quello che la genetica e la casualità hanno voluto premiare regalandogli un poco più d'intelligenza degli altri, un poco più di fiuto, un poco più di resistenza, di cerca, di obbedienza, di passione, di temperamento, insomma, non una razza, ma un individuo. Ecco perché il lagotto è un ottimo cane da tartufi, ma anche tanti altri: perché la vera differenza la fa sempre il singolo.
Da queste poche note e facilmente intuibile che per i tartufai non esiste il "cane da tartufo", né una razza che possa impunemente fregiarsi di tale titolo, ma piuttosto un individuo che racchiude in sé i tentativi di plasmare insieme le singole componenti qualitative che meglio possono rappresentare la ricerca del tartufo. Mi sono soffermato di più sugli incroci di prima generazione perché si è rivelato più facile ottenere, nei meticci che ne derivano, l'assemblaggio dei requisiti in possesso dei genitori più di quanto non accada con gli incroci di seconda e terza generazione, in cui il patrimonio genetico viene spesso dissipato in modo imprevedibile, pur se talvolta questi incroci hanno dato origine a elementi eccezionali. Il mio obiettivo era e rimane solamente quello di tracciare un canovaccio attraverso il quale la fantasia e la capacità del tartufaio e dell'allevatore, accompagnate dall'abilità nell'interpretare le diverse necessità legate ai vari tipi di ricerca, possano condurre al miglior risultato possibile.
Ricordo ancora che il selezionatore non è un manipolatore di geni e che la genetica è una scienza con regole proprie, per le quali ci si deve aspettare che, tra le tante ciambelle cotte al forno, ce ne sia sempre qualcuna che esce senza il buco.
Dei cani da tartufo il Ce soleva dire, con quella sua argomentazione spicciola che la sapeva lunga ben più di tante dissertazioni: "Al can da triful le qual cha ia troeva, carocia!», ovvero: il cane da tartufi è quello che li trova.
Come dargli torto? ...
(nella foto sopra: Pucci, meticcio spinone breton, mentre cava un Tuber Aestivum)